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Diving Helmet Italy by Fabio Vitale
Diving Helmet Italy by Fabio Vitale

Il recupero della corazzata Leonardo da Vinci

Ci sono storie dove quello che conta non è il successo nel raggiungere un determinato obiettivo ma il semplice tentativo di affrontare quella che viene ritenuta una impresa impossibile affinché le generazioni future possano trarre, anche solo dall’esempio, l’energia per le sfide sempre più difficili che il futuro riserva.

E’ il caso della Regia Nave “Leonardo Da Vinci”, una corazzata varata nel 1911 a Genova ed entrata in servizio alle soglie della Prima Guerra Mondiale, il 17 maggio 1914. Dislocava a pieno carico circa 25.000 tonnellate ed era lunga 168,9 metri. Sicuramente un vanto per la Regia Marina che vedeva in questa moderna “dreadnought” il risultato di una cantieristica di alto livello.

Nella notte del 2 agosto 1916 mentre si trovava ormeggiata nel Mar Piccolo di Taranto con l’equipaggio al completo (1.190 uomini tra ufficiali e marinai), un violento incendio divampò verso le ore 23.00 nella parte poppiera in vicinanza di un deposito di munizioni. Questo fatto preoccupò moltissimo il Comandante della Nave, il Capitano di Vascello Galeazzo Sommi Picenardi che ordinò, quindi, l’allagamento del deposito di munizioni poppiero e il raffreddamento delle paratie e dei ponti adiacenti che andavano arroventandosi.

Evidentemente queste precauzioni non bastarono perché a un certo punto una serie di esplosioni avvenute sottocoperta furono udite e talmente potenti da provocare degli squarci sul ponte che fecero le prime vittime tra l’equipaggio che andava radunandosi in coperta.

Alle 23.22 avvenne una prima terribile esplosione e alle 23.40 una esplosione più violenta ancora spezzò la carena della nave e fece capovolgere la corazzata in pochi minuti.

Morirono 228 uomini di equipaggio e 21 ufficiali tra cui Sommi Picenardi.

Le indagini in seguito svolte vollero addebitare l’esplosione a un’azione di sabotaggio per opera di traditori al soldo del nemico austriaco ma in realtà non furono mai chiarite le cause dell’incendio che provocò l’esplosione delle munizioni. Per una tragica fatalità proprio in quel 2 novembre erano state caricate a bordo un notevole numero di munizioni da 305 per le prove di tiro che si sarebbero dovute svolgere il giorno successivo.

La R.N. “Leonardo da Vinci” attraversa il canale navigabile a Taranto 

In realtà, la possibilità di incendi a bordo delle navi non era un evento così improbabile. Incuria, fatalità e la non osservanza di norme, alcune delle quali non adeguate, potevano benissimo essere state all’origine dell’incendio che poi determinò l’affondamento della corazzata.

La nave si presentava quindi con la chiglia che guardava il cielo. La coperta, con tutte le strutture più forti come le torri triple e binate e le torri di comando, era affondata nel fondo melmoso. Lo scenario era apocalittico, irreale, dovunque sul mare galleggiavano detriti, chiazze oleose e, purtroppo, corpi.

Agli occhi degli esperti stranieri convenuti a Taranto, il recupero sembrava impossibile. Convennero che l’unica cosa da fare era demolire la corazzata un pezzo alla volta, aggiungendo ulteriore sconforto al dolore per una così grave perdita.

Contrariamente alla logica, le autorità italiane, militari e civili non furono dello stesso avviso degli esperti e, con un decreto dell’11 agosto, venne nominata una commissione di ingegneri che avrebbe avuto l’incarico di studiare la fattibilità di un lavoro di recupero che mirasse a poter poi ripristinare la corazzata in condizioni di piena efficienza.

Viene sistemata la braga a un palombaro che sta per immergersi sul relitto della corazzata

Dopo la decisione di recuperare la Leonardo Da Vinci ci si rese conto che il lavoro si annunciava veramente arduo: una mole così enorme rovesciata all’ingiù presentava una complessità estrema per gli interventi da attuare. C’era da considerare la presenza di tutte le strutture mobili, dei materiali e degli esplosivi ancora giacenti nelle viscere della nave e che bisognava recuperare. L’indirizzo operativo fu di portare la nave in condizioni di galleggiamento così com’era per riuscire in seguito a raddrizzarla. L’idea è da attribuire al progetto del Tenente Generale del Genio Navale Edgardo Ferrati mentre i lavori furono diretti dal Maggiore del Genio Navale Odoardo Giannelli.

La prima cosa da fare sarebbe stata la chiusura delle falle presenti in chiglia e nelle murate. Poi si sarebbero dovute applicare alla nave delle camere di equilibrio e cioè delle torri da cui si sarebbe potuto accedere all’interno dello scafo messo in pressione per poter scacciare l’acqua presente in esso. Da queste vie si sarebbe potuto far passare il materiale da sbarcare. Le prime due camere furono installate nell’aprile del 1917 e a maggio iniziò la messa in pressione.

Si decise di far costruire sei cassoni ad aria compressa, dei grandi cilindri, che poi si sarebbero applicati ai lati dello scafo immerso e che, una volta riempiti d’aria, avrebbero portato la nave in galleggiamento.

Tra i problemi più gravosi si propose quello di trovare del personale che entrasse nel ventre della nave. Spaventava l’idea di lavorare in quell’ambiente messo in pressione, al buio, in un caldo-umido insopportabile (si arrivava oltre i quaranta gradi di temperatura con un tasso di umidità elevatissimo) e con la costante presenza di tutto quell’esplosivo che avrebbe potuto ancora giocare qualche brutto scherzo. Non fu per niente facile trovare quaranta operai che si mettessero all’opera.

In sette mesi di durissimo lavoro furono portate fuori dalla nave ben settecento tonnellate di munizioni mentre i palombari della Regia Marina si adoperavano per un altro difficilissimo lavoro, quello di turare gli squarci lungo le murate.

Tra i tanti palombari presenti ne vennero selezionati dieci tra i più esperti e capaci e anche loro lavorarono ininterrottamente per otto mesi agli ordini del Capitano del Genio Navale Andri. Per immaginarsi la difficoltà di quest’opera basti pensare che i due squarci principali avevano un’estensione pari a circa 60 metri quadrati e presentavano i bordi frastagliati e slabbrati verso l’esterno.

Si dovettero smussare tutte queste sporgenze per dopo poter applicare le piastre metalliche che erano dotate di guarnizioni di gomma affinché ci fosse la tenuta stagna una volta attaccate alla chiglia.

Foto di gruppo di palombari partecipanti ai lavori sulla “Leonardo da Vinci” in fiera posa insieme al loro comandante 

Il progetto prevedeva quindi di rimettere a galla la nave per poi trasportarla per circa due chilometri e mezzo al traino di rimorchiatori fino al grande bacino in muratura dell’arsenale. Una volta lì e in secco, si sarebbero eseguiti i lavori di chiusura delle falle e delle aperture sul ponte in modo da renderla completamente stagna.

Completato anche questo passaggio la si sarebbe riportata in mare dove, in uno spazio appositamente scelto e predisposto, si sarebbe potuta effettuare la manovra di raddrizzamento.

Per immaginarsi le difficoltà incontrate dobbiamo tenere presente che durante i lavori di chiusura delle falle laterali bisognò anche scavare lateralmente lungo le pareti poggiate sul fondo e questo per cercare di alleggerire la morsa del fango nel quale le strutture di coperta erano sprofondate per circa una decina di metri.

I tecnici dovettero decidere di procedere ad un lavoro colossale, imposto dalla decisione di portarla in bacino. Si sarebbero dovuti staccare alberi, fumaioli, torri corazzate e qualsiasi altra sovrastruttura sporgente di molto sulla coperta e questo lavoro doveva essere fatto in parte sul fondo facendosi largo nella melma e in parte dall’interno della nave.

Fu un’impresa titanica realizzata dai palombari della Regia Marina. Ore e ore di duro lavoro, immersi nella oscurità del fango impenetrabile alla luce delle lampade. Smontarono pezzo a pezzo a costo di durissima fatica tutti i fumaioli formati da tre anelli concentrici di grossa lamiera. Le torri corazzate vennero sganciate dall’interno della nave ma si dovette predisporle con degli agganci per il successivo recupero.

Solo per il distacco delle torri, la corazzata si alleggerì di 3.000 tonnellate.

Si continuava a lavorare anche dentro la nave per cercare di asportare tutto il possibile. Il personale impiegato, tra operai e palombari, era arrivato a circa centocinquanta unità. 

Uno dei 120 palombari che si avvicenderanno sulla corazzata nei quasi quattro anni di estenuanti lavori

Alla fine furono agganciati i cilindri ai fianchi della nave.

Si giunse così al fatidico giorno del sollevamento, il 15 settembre del 1920: erano passati praticamente quattro anni per arrivare a questo risultato. Migliaia di ore di immersione da parte dei circa 120 palombari che si erano avvicendati.

La manovra di galleggiamento ebbe successo e la “Leonardo Da Vinci” poté essere rimorchiata fino in bacino. Anche qui non fu facile perché per agevolare il rimorchio della nave si dovette scavare un canale di due chilometri e mezzo di lunghezza per quarantacinque metri di larghezza affinché non ci fossero ostacoli alla navigazione.

Dopo gli ulteriori lavori sulla coperta la nave poté essere raddrizzata il 24 gennaio del 1921.

Purtroppo a questo poderoso lavoro non corrispose il risultato sperato perché la nave non poté mai essere ripristinata e venne radiata nel 1923.

Qualcuno potrebbe sorridere a questo punto perché dopo un lavoro colossale l’obiettivo non fu raggiunto e invece forse l’obiettivo più importante fu proprio la dimostrazione delle capacità operative di quegli uomini e soprattutto dei palombari della Regia Marina Italiana, una tradizione che a distanza di oltre novant’anni abbiamo ritrovato nel recupero del Costa Concordia.

La “Leonardo da Vinci” a chiglia in su con le torri a pressione installate per poter svuotare dall’acqua l’interno della nave.  Qui la vediamo mentre entra nel bacino che la accoglierà per i lavori di riparazione 

La “Leonardo da Vinci” dopo la manovra di raddrizzamento il 24 gennaio del 1921

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