Dopo le sperimentazioni delle miscele sintetiche negli anni Trenta e le loro applicazioni soprattutto in campo militare nei principali Paesi quali USA, Gran Bretagna e Russia, nel dopoguerra si segnò il passo fino a che i militari dovettero condividere il progresso in questo campo con l’industria off shore che cercava di portare uomini ad operare a quote sempre più profonde per l’estrazione del petrolio dai giacimenti sottomarini.
Negli anni sessanta furono diverse le sperimentazioni in cerca di sviluppare nuove metodologie per l’alta profondità. Tra queste anche quelle che prevedevano la posa in fondo al mare di speciali habitat in cui l’uomo potesse vivere. I primi esperimenti di “vita subacquea” in habitat posti oltre i 50 metri di profondità sono stati:
– nel 1961 “Men in the sea I” a quota –61 m
– nel 1964 “Men in the sea II” a quota –131 m
– nel 1964 “Sealab I” a quota –58 m
– nel 1965 “Sealab II” a quota –62 m
– nel 1965 “Precontinente III” a quota –100 m
A queste sperimentazioni ne seguirono diverse altre e in quelle più estreme spesso si pagò un doloroso pegno in vite umane. È il caso della famosa immersione di Hannes Keller e Peter Small effettuata nel Lago della California presso S. Catalina. Keller e Small furono portati da una campana alla profondità di 305 metri. Una volta arrivati a questa quota Keller uscì dalla campana indossando uno speciale autorespiratore. Purtroppo nella fase di risalita Small e un altro subacqueo di supporto, Chris Whittaker, morirono. Hannes Keller riuscì a sopravvivere.
Dagli anni settanta l’immersione commerciale ha sicuramente preso il sopravvento rispetto alle esperienze maturate in ambiente militare o quanto meno possiamo dire che le due strade hanno viaggiato parallele, sovrapponendosi in molti casi. Infatti, qualche volta la sperimentazione in ambito militare si è servita delle esperienze maturate nelle immersioni commerciali.
Apparati sviluppati negli anni settanta: inn alto l’apparato da immersione profonda General Aquadyne GS-2 e sotto l’Advanced Series 3000 ideato da George Swindell. Entrambi erano progettati per l’impiego di miscele elio-ossigeno con ricircolo dei gas e depurazione della CO2 per mezzo di un filtro di assorbente chimico. Erano collegati a una manichetta che dalla superficie riforniva il sommozzatore di miscela ed erano equipaggiati con delle bombole di emergenza nel caso si fosse interrotto il flusso dalla superficie (da Skin Diver Magazine).
Dagli apparati che abbiamo preso in esame nelle precedenti puntate sono poi nate una serie di apparecchiature per immersioni su alti fondali, soprattutto con lo sviluppo delle tecniche “in saturazione”. Potremmo quindi dire che il vecchio scafandro elastico che utilizzava l’heliox a circuito chiuso si è poi trasformato in uno scafandro leggero dotato di apparato di ricircolo e contemporaneamente di rifornimento di miscela dalla superficie attraverso un ombelicale, per poi passare al solo ombelicale dalla superficie per la respirazione in circuito aperto, sicuramente meno complicata e pericolosa anche se bisognevole di maggiori quantitativi di gas.
Sempre dalle esperienze passate è derivato anche lo sviluppo delle apparecchiature rebreather vere e proprie, cioè quegli autorespiratori autonomi, a circuito semichiuso prima e chiuso poi, che hanno visto la nascita verso la fine degli anni sessanta in campo esclusivamente militare per poi passare a quello commerciale prima e amatoriale più recentemente e che vede tutt’oggi un grande fermento e una continua sperimentazione e innovazione.
Nel campo dei rebreather voglio solo accennare, da un punto di vista storico, all’evoluzione maturata in casa Draeger che, sulla base delle sue esperienze, ha costruito sin dalla fine degli anni sessanta una serie di apparati rebreather a circuito semichiuso per l’impiego di miscele elio-ossigeno destinati inizialmente al settore militare ma che poi sono stati impiegati anche in campo amatoriale/commerciale.
Si tratta dei rebreather FGG III (FGG era l’acronimo di Fertiggas Gemisch Gerät cioè “apparato autonomo a miscela di gas”) e SMS-I (SMS acronimo di Schlauchabhängige Mischgas Schwimmtauchgerät cioè “apparato per uso subacqueo per miscele fornite da manichetta”). Entrambi erano concepiti per immersioni con uso di campana subacquea e, come dice l’estensione dell’acronimo SMS, quest’ultimo doveva essere collegato con un ombelicale. Per entrambi la profondità massima di impiego era fissata in 200 metri: una quota, per l’epoca, di tutto riguardo.
II rebreather della Draeger FGG III e SMS I con le calandre aperte per mostrare i componenti interni (g.c. COMSUBIN).
La Marina Militare Italiana li adottò proprio agli inizi, tra il 1969 e il 1972, per una fase di sperimentazione sulle immersioni profonde con miscele elio-ossigeno.
In Italia uno dei primi utilizzatori in campo civile di questo autorespiratore fu Leonardo Fusco, entrato nella leggenda dei pescatori di corallo.
Quando Leonardo Fusco incontrò per la prima volta nel 1970 un rebreather a miscele, aveva già alle spalle una lunga carriera da profondista ad aria. Un profondista per mestiere e non per sport, visto che fin dal 1953 aveva deciso di dedicarsi alla raccolta del corallo rosso.
In quei primi anni la profondità alla quale si raccoglieva il corallo non superava i quaranta metri, quota determinata dall’uso di attrezzature subacquee rudimentali o comunque ancora poco evolute. Eravamo agli inizi nella costruzione degli autorespiratori ad aria (ARA) e con l’aumentare della profondità questi non riuscivano a garantire un idoneo flusso di aria al subacqueo.
Con l’andare degli anni le profondità per la pesca al corallo erano via via aumentate grazie al progredire delle attrezzature favorito anche dalle sperimentazioni di questi pionieri delle profondità. Alla fine degli anni cinquanta, Leonardo Fusco, all’Isola di Montecristo, raccoglieva corallo fino a ottantacinque metri di profondità, una quota impensabile per quegli anni.
Poi la caccia all’oro rosso si spostò in Sardegna e qui le profondità rimasero costantemente elevate, tra gli ottanta e i cento metri, sempre con l’uso di aria. La grande esperienza di questi profondisti, tra i quali non possiamo non ricordare anche Raimondo Bucher, riusciva in qualche modo a contenere i rischi di queste immersioni ai limiti del possibile. Ciononostante in quegli anni fu alto il numero di subacquei che persero la vita inseguendo l’oro rosso, vittime alcune volte dell’imponderabile e dei risicati margini di sicurezza e altre volte della scarsa esperienza nell’immersione profonda, esperienza che i grandi di quel periodo avevano acquisito per gradi in un decennio di attività.
Ho ricordato prima Raimondo Bucher e non per caso. Bucher fu un grande profondista, con migliaia di immersioni a caccia di corallo anche a quote oltre i cento metri e aveva la convinzione che per lui, ufficiale pilota in pensione, questa attività dovesse essere confinata nei limiti dello sport e quindi con i mezzi “normali” che si avevano a disposizione. Insomma, erogatore, bombole e aria compressa, il resto era dato dall’esperienza e dall’allenamento.
Leonardo Fusco, invece, aveva un concetto diverso, non da sportivo ma da “lavoratore degli abissi”. Il corallo era per lui la sua “impresa commerciale”, la cosa che gli permetteva di vivere e di guardare al futuro e in questo senso cercava sempre di sviluppare sistemi e tecnologie che gli permettessero di lavorare in maggiore sicurezza e con più efficienza. Fu uno dei primi a sistemare una camera di decompressione sulla propria barca, a cercare di sviluppare tabelle di decompressione “ad hoc” per i corallari. Fu in questa attività di ricerca e perfezionamento che si imbatté nel 1970 in uno dei primi rebreather a miscele elio-ossigeno.
Leonardo Fusco (con la muta) osserva i preparativi del suo rebreather FGG III da lui stesso modificato.
L’obiettivo era di poter approcciare in modo più efficiente le profondità dagli 80 ai 120 metri dove i fondali sardi promettevano abbondanti raccolte di corallo nobile.
Fusco sperimentò un primo rebreather di costruzione americana in camera iperbarica ma non ne rimase assolutamente convinto e abbandonò questa strada fino al 1972, anno nel quale fu introdotto alla Draeger dove si stava perfezionando da alcuni anni un rebreather elio-ossigeno a circuito semichiuso abilitato a quote fino a 200 metri di profondità, il famoso FGG III. Come già detto, era un apparecchio destinato all’uso militare ma, evidentemente, la possibilità per la Draeger di una sperimentazione commerciale abbatté le barriere del segreto industriale.
Fu così che Leonardo Fusco, dopo alcune sperimentazioni in camera iperbarica e un corso di abilitazione all’uso dell’FGG III, acquistò due rebreather per cominciare l’avventura dell’heliox.
Attento come sempre alla sicurezza e capendo che l’uso che ne avrebbe fatto era diverso da quello per cui l’FGG III era stato concepito, Fusco, da buon italiano genialoide e “faidate”, apportò delle modifiche al rebreather. L’FGG era protetto da una calandra idrodinamica gialla in vetroresina. Su questa vennero installate due “rastrelliere” per ospitare due bombole da sette litri ciascuna.
Una conteneva una miscela di heliox al 15% di ossigeno e l’altra aria. Entrambe caricate a 250 atmosfere. In caso di malfunzionamento del rebreather, Fusco respirando dalla bombola a heliox avrebbe avuto il tempo di risalire fino a 40 metri di profondità dove avrebbe potuto poi utilizzare la bombola di aria e giungere così alla quota dove, dalla superficie, gli sarebbe stata fornita la manichetta per la decompressione.
L’FGG III consentì a Fusco immersioni a oltre cento metri di profondità con una permanenza sul fondo che poteva arrivare fino a trenta minuti. Il tutto in completa padronanza dei sensi: un bel progresso rispetto alle immersioni a 80-90 metri ad aria per pochi minuti e in stato di ebbrezza latente.
C’è una frase di Leonardo Fusco, riferita al periodo dell’heliox, che voglio citare, tratta dal suo bel libro Corallo Rosso e che ci svela uno dei volti della conquista delle profondità: Per più di quindici anni mi sono immerso migliaia di volte su scogliere comprese su batimetrie che vanno dagli ottanta ai centocinquanta metri di profondità. Per la prima volta avevo la sensazione che il mondo subacqueo sul quale in quel momento stavo vivendo fosse il mio pianeta natale, il mio elemento naturale. E potevo assaporarne, nel pieno delle mie facoltà sia mentali che visive e tattili, tutte le bellezze.
Leonardo Fusco poco prima di immergersi con l’FGG III.